Editoriale

In questo primo numero del nuovo corso di do.co.mo.mo. Italia giornale abbiamo voluto trattare il tema dei Piani di conservazione, molti dei quali promossi dal programma Keeping It Modern della Getty Foundation (2014-2020).

Si tratta di strumenti di tutela, espressione dello studio e dell’analisi di opere d’architettura del Novecento; delle vicende che hanno portato alla loro realizzazione e di quelle che ne hanno contrassegnato le tappe successive; delle tecnologie e dei materiali con cui furono realizzate; degli usi, spesso mutati nel tempo; delle modifiche, frutto di interventi posteriori; della fortuna critica, ricca di contributi in opere monografiche o antologiche, di carattere internazionale o risultato di studi territoriali: una fortuna, talvolta, in stridente contrasto con le condizioni di incuria e di abbandono delle opere. Infine, strumenti di tutela che, in coerenza con tutti gli aspetti accennati, forniscono le linee guida per una metodologia di conservazione e di gestione, prima ancora che di recupero e restauro.

I tre saggi iniziali sono dedicati ad aspetti d’inquadramento generale.

Il primo considera il piano di conservazione in combinato disposto con integrazioni normative che consentano un’attenzione per le architetture più recenti e contemporanee, non ancora annoverabili, certo, nella categoria canonica dei beni culturali, ma non per questo da lasciare in balia di un destino non controllabile, che può condurre a modifiche irreversibili o alla completa demolizione privando le generazioni future di un legittimo diritto di giudizio e di scelta. In particolare, viene prospettata una possibilità di storicizzazione che, prescindendo dall’interposizione di astratti segmenti temporali, punti sull’interesse relazionale, con riferimento ad altre opere, coeve o più antiche, che possano definire un pertinente contesto tematico dell’opera in esame.

Nel secondo saggio Andrea Canziani parte dall’inquadramento storico del concetto di conservazione, richiamandone le tappe più rilevanti, sottolineandone la concezione di partenza, che era quella di controllo, piche di intervento diretto e, con riferimento, tra gli altri, ai contributi di Stefano Della Torre, richiamando l’evoluzione successiva che ha portato a un’idea del tutto differente, «basata sul cambiamento continuo come condizione della nostra esistenza». Per dirla con Amedeo Bellini, «la ricerca di una regolamentazione della trasformazione che (…) massimizza la permanenza, aggiunge il proprio segno, reinterpreta senza distruggere». Sotto tale riguardo, tra l’altro, emergono nel saggio di Canziani le numerose specificità dell’architettura rispetto alle opere mobili nelle principali attività della
tutela, quale la conservazione e il restauro. Dunque, conservazione programmata come processo piche intervento una tantum, in cui anche la manutenzione va intesa in senso pertinente ai materiali e alle tecnologie dell’opera: un processo in cui l’aspetto tecnologico è uno strumento conseguenziale a quello culturale, di cui il piano di conservazione costituisce una diretta applicazione. Non si manca, infine, di rilevare come ai progressi sul piano squisitamente culturale della disciplina e della formulazione normativa della conservazione, non corrispondano analoghi avanzamenti nel mondo professionale e nelle pubbliche amministrazioni.

In riferimento a quest’ultimo punto, risulta particolarmente pertinente il saggio di Alessandra Marin, in cui si rileva come il coinvolgimento di una molteplicità di attori nelle azioni di riconoscimento, tutela, conservazione, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale dell’Italia è sempre più rilevante, ma poco utilizzato nel caso del patrimonio architettonico e urbano del Novecento. Sulla scorta delle buone pratiche già riconosciute e della Convenzione di Faro, recentemente ratificata dall’Italia, Marin prospetta alcune questioni riguardanti il modo più efficace di organizzare il coinvolgimento delle comunità nel processo continuo di definizione e di gestione dell’eredità culturale. Risorse messe in gioco, valori riconosciuti, soggetti attivati e relazioni reciproche possono costruire, se ben definiti e organizzati, traiettorie di patrimonializzazione adeguate a produrre non solo la conservazione del cultural heritage, ma anche occasioni di sviluppo socio-economico e di empowerment delle comunità locali. D’altra parte, senza l’innalzamento del più generale livello di consapevolezza riferita i valori più recenti che connotano il territorio, non potranno registrarsi progressi, sotto tale aspetto, nella stessa classe professionale del settore e nelle pubbliche amministrazioni competenti.

I saggi che seguono, riguardanti singoli Piani di conservazione, hanno un precipuo carattere esemplificativo. Riferiti a opere di rilievo mondiale e di inequivocabile interesse culturale, del tutto indipendente da decreti amministrativi, illustrano, ciascuno attraverso le
rispettive specificità, il carattere del Piano di conservazione inteso quale strumento innanzitutto culturale, che acquista senso e significato in rapporto all’opera cui è applicato.

Lo stadio Flaminio, progettato da Pier Luigi Nervi e dal figlio Antonio (1957-58), e inaugurato nel 1959, in occasione delle XVII Olimpiadi di Roma (1960), e il Salone B al Parco del Valentino a Torino, progettato e realizzato da Nervi tra il 1947 e il 1954, sono particolarmente significativi per il nostro tema. In entrambi, infatti, assume rilievo la sperimentazione strutturale su larga scala adottata dal progettista e la considerazione dell’aspetto costruttivo quale parte integrante di quello progettuale.
Come precisano gli autori, il Piano di conservazione dello stadio Flaminio è articolato «in tre macro-fasi: il riconoscimento del portato valoriale dell’opera, l’analisi dello stato di fatto e delle trasformazioni occorse nel tempo e la definizione e attuazione delle politiche di conservazione».

Particolare significato, accanto all’analisi critica e alla conseguente valutazione dell’interesse culturale, rivestono l’approfondito studio degli aspetti strutturali e materici, la valutazione degli elementi architettonici visti nella prospettiva delle vicende storiche e il contributo fornito sul contesto urbano attraverso uno studio specifico e una conseguente proposta di risistemazione.

Anche nel piano riguardante l’opera torinese è data particolare importanza alla definizione del valore, in costante riferimento ai documenti internazionali sul tema. Ma, diversamente che per lo stadio Flaminio, per il quale è stato proposto l’accostamento ad altre opere dello stesso autore, qui la definizione del “valore” è ricercato nelle qualità e nei caratteri dell’opera in sé, considerati quali “invarianti”, ossia, come elementi da conservare e rispettare. Per dirla con le parole degli autori, «analisi dirette e indirette, come la ricostruzione storica e la caratterizzazione dei materiali e dei sistemi costruttivi consentono l’individuazione di tali invarianti. Gli invarianti sono definiti in base ad aspetti come la qualità architettonica, indipendentemente dall’autore e dall’epoca di costruzione, includono il riconoscimento di caratteri materici e costruttivi e, in questo senso, anche delle caratteristiche immateriali legate a un fare non più replicabile, nemmeno per il patrimonio del XX secolo».
Beninteso, le strade del “riconoscimento valoriale” prospettate nel piano di conservazione dello stadio Flaminio e del Salone B non sono necessariamente alternative, ma possono considerarsi concorrenti.

Spostandoci dalla penisola fino a Caracas ritroviamo, attraverso il lavoro di Sara Di Resta e Giorgio Danesi, una testimonianza adamantina della cultura italiana in Villa Planchart, progettata da Gio Ponti tra il 1953 e il 1957. Sono trascorsi sessantacinque anni, ma il Venezuela,
come molti paesi del continente americano, non prevede alcuna barriera temporale alla tutela di un’opera del secondo Novecento. Il saggio presenta gli esiti del pro.getto di ricerca Correspondences. Villa Planchart from design to materiality (2019-2021), coordinato dall’Università Iuav di Venezia in collaborazione con Docomomo International ISC E+T e co-finanziato da Docomomo Venezuela, dedicato alla stesura della documentazione preliminare utile alla redazione del Conservation Management Plan della villa. Come rilevano gli autori, attraverso «l’intenso dialogo a distanza tra protagonisti illuminati: in Italia, il progettista e i fornitori di materiali pregiati ed elementi d’arredo, in Venezuela, la committenza e i tecnici di cantiere, (…) L’incarico (…) si traduce presto in una sfida culturale, professionale e logistica che avrebbe dato vita (… a) quella che alcuni studiosi hanno definito un’opera d’arte totale». Anche qui, l’analisi parte dal progetto per analizzare le vicende realizzative, estese al rapporto con le maestranze e ai materiali. E lo studio si raccomanda, in particolare, per la metodologia di ricerca, sviluppata attraverso l’integrazione tra i grafici del progetto, i documenti di cantiere e l’epistola.rio, con schede analitico descrittive di ogni documento. A partire dall’analisi della documentazione conservata in tre archivi nel mondo e con l’apporto in situ di specialisti del settore, lo studio fornisce un contributo inedito alla conoscenza dell’edificio, ricostruendone l’articolato processo esecutivo e orientando il progetto diagnostico essenziale per la stesura definitiva del piano.

Infine, il piano di conservazione delle Scuole Nazionali d’Arte di Cuba dimostra come si possa prolungare, in un mutato clima culturale, la vita di un’opera fortemente marcata dallo spirito visionario degli anni sessanta, realizzata per concretizzare una prospettiva all’epoca innova.tiva, l’insegnamento dell’arte nelle sue forme più accattivanti: musica, arti visive, teatro, danza moderna, balletto. Un’opera che aveva assunto forti valenze anche dal punto di vista paesaggistico. L’abbandono e le critiche di individualismo cui fu sottoposta nel clima imperante del socialismo reale; l’attenzione internazionale del Word Monuments Found, con l’inserimento nella Tentative List UNESCO; la qualifica di monumento nazionale di Cuba nel 2010 e il coinvolgimento di personalità di rilievo mondiale, quali Norman Foster o il ballerino cubano Carlos Acosta, si susseguono in un racconto contrassegnato da alterne vicende, con un lieto fine rappresentato dalla redazione del piano di conservazione, frutto di una collaborazione tra istituzioni culturali di differenti Paesi e di studiosi di differenti discipline. Il piano va oltre la materialità dell’opera, curandone la dimensione paesaggistica e proponendosi come strumento di tutela attiva e partecipativa, che contempera la documentazione e la conservazione con la sostenibilità ambientale, la gestione e l’efficienza energetica.

Buona lettura.

Ugo Carughi