Sul crollo del Ponte Morandi

Quel camion sulla carreggiata del ponte di Polcevera, fermo a pochi metri dal crollo come un tuffatore su un trampolino a cinquanta metri d’altezza, non avrebbe potuto esprimere in modo più drammatico la differenza tra il destino del suo autista, che ha frenato appena in tempo, e quello di chi era già oltre ed è precipitato. Tra ciò che è rimasto e ciò che abbiamo perso per sempre. Un dettaglio surreale nel tragico scenario delle rovine di un mondo che non c’è più. Assieme a tante vite innocenti sembra che sia stata cancellata una delle storie più affascinanti dell’ingegneria italiana, in cui Riccardo Morandi, accanto ad altri grandi come Pier Luigi Nervi, Sergio Musmeci, Silvano Zorzi, ha recitato un ruolo da protagonista, in particolare nell’uso del cemento precompresso, nella direzione tracciata da Gustavo Colonnetti. Dal ponte sulla laguna di Maracaibo, in Venezuela, a quello sul torrente di Polcevera, al viadotto Carpineto I, in Basilicata, ad opere di differente tipologia come, tra le altre, il viadotto di Agrigento, il ponte ad arco di Catanzaro, secondo per altezza in Europa, o il Padiglione V, al Parco del Valentino a Torino. Queste strutture, che come astratti diagrammi entrano in scenografica simbiosi con il paesaggio, hanno stupito il mondo, illustrando l’ingegno italiano sui libri d’architettura e d’ingegneria.

Sul ponte di Genova fin dagli anni ’70 lo stesso Morandi aveva constatato i primi inconvenienti dovuti all’aggressività dell’atmosfera. Dagli anni ’80 si erano susseguiti interventi di consolidamento e nel 1993 una serie di verifiche rivelarono la presenza di degradi concentrati oltre allo snervamento di alcuni trefoli. Dopo accurate indagini, furono eseguiti interventi rigenerativi alle armature e alle guaine in calcestruzzo precompresso e installati nuovi cavi esterni in aderenza a quelli esistenti, in modo da consentirne la manutenzione. Si ha notizia di interventi fino all’anno scorso, oltre che di un ulteriore programma da appaltare per 20 milioni di euro.

Purtroppo, molte delle opere in cemento armato costruite tra gli anni ’50 e ’60 presentano problemi, per le fessurazioni del calcestruzzo, l’ossidazione delle armature, l’assottigliamento progressivo delle sezioni resistenti a trazione e a compressione; talvolta per la fraudolenta esecuzione. I ponti lungo la Penisola sono varie decine di migliaia. E’ evidente che non possono essere tutti abbattuti e ricostruiti. Che occorre una selezione e una gradualità di interventi; e, per tutti, un monitoraggio attivo, con particolare impegno alla conservazione di quelli considerati parte del patrimonio italiano del ‘900. Al di là delle cause tecniche, si può dire di queste strutture che maggiore è la loro essenzialità nel superare incredibili ‘luci’, vincere vertiginose altezze, equilibrare pesi e contrappesi, maggiore è il rischio che la débâcle anche di un solo elemento dell’insieme metta in crisi tutto il sistema. Così, la stessa qualità dell’opera può diventare un fattore di crisi irreversibile in mancanza di un controllo continuo nel tempo.

Ecco, il tempo: quello astratto invocato dalla critica per decretare l’interesse culturale di un’opera dovrebbe essere piuttosto utilizzato per mantenerla in condizioni di ottimale efficienza. Soprattutto quando si tratta di strutture pubbliche che comportano un uso continuo da parte della collettività. Il tempo va riempito di contenuti ‘attivi’ che adeguino l’opera garantendone una più consapevole valutazione da parte delle future generazioni. Certo, il trascorrere dei decenni cambia le condizioni che ne avevano determinato i caratteri peculiari; cambia le esigenze; le intensità e i modi d’uso; le normative di esercizio; gli strumenti di comunicazione; anche le condizioni climatiche. Per ognuna di queste strutture, più o meno importanti, sarebbe necessario conoscere la natura ed entità dei lavori realizzati dall’inaugurazione ai nostri giorni. Le amministrazioni che le hanno in gestione dovrebbero farsene obbligatoriamente carico per consentire le opportune valutazioni a commissioni di esperti che orientino i programmi del Governo.

Quel camion fermo sul ciglio del viadotto crollato sembra indicare l’urgenza di una scelta, drammatica quanto la stessa tragedia che l’ha generata. Vogliamo distruggerlo, questo patrimonio italiano? Vogliamo cancellare, anche con considerazioni tecniche legittime ma tardive, una stagione di idee, sperimentazioni, competenze, inventiva, che hanno avuto pochi uguali al mondo? Vogliamo stare sulla parte ancora intatta di carreggiata, accanto al camion, oppure scegliamo di librarci in caduta libera nel vuoto, raggiungendo le rovine accatastate nel vallone sottostante?

Ugo Carughi – La Repubblica 17/8/2018